Al dente! Storia della cottura della pasta. Il lancio degli spaghetti, ovvero come (non) si cuoce la pasta

Questo articolo è un approfondimento di quello apparso sul Gambero Rosso nel novembre del 2018

“Per capire se gli spaghetti sono cotti, se ne prende una forchettata e la si lancia sul muro: se rimangono appiccicati, allora sono pronti”. Sicuramente molti di voi avranno sentito questa storia e certamente molti stranieri sono convinti, ancora oggi, che questo sia il metodo utilizzato dagli Italiani per capire quando è il momento di scolare la pasta.

Questo aneddoto ormai è diventato un luogo comune all’estero e ha la struttura di una vera e propria leggenda urbana: anche chi non lo ha mai sperimentato (e lo spero bene) è pronto a giurare di avere un parente o un amico (meglio se amico di un amico) che faceva proprio in questo modo. Ovviamente il parente o l’amico sono inequivocabilmente italiani.

Per un italiano che soggiorna all’estero è quasi immancabile la domanda su questo metodo, che molti stranieri credono sia effettivamente in uso nel nostro paese. Fino a poco tempo fa non riuscivo a capire dove si fosse generata una leggenda simile, fino a quando non mi sono imbattuto nel libro scritto da Giuseppe Prezzolini, Maccheroni & C., datato 1957.

Ripercorrendo la fortuna della pasta nel continente americano, l’autore cita questo aneddoto che risale al ricettario dal titolo You can cook if you can read di Muriel e Cortland Fitzimmons, stampato a New York nel 1946, in cui viene riportato questo “affascinante” metodo in uso nelle famiglie italiane emigrate nel nuovo mondo.

Nell’intento di cercare un metodo “sicuro” per capire se la pasta è cotta,  gli autori americani hanno scelto di raccontare questa storia anziché sforzarsi di spiegare ai lettori quale debba essere la giusta consistenza degli spaghetti. L’ostacolo rappresentato dalla difficoltà di cuocere correttamente la pasta è sintomo di un vero e proprio scontro di due differenti culture culinarie, come percepì lo stesso Prezzolini.

Nonostante dal dopoguerra a oggi siano passati molti anni e la cucina italiana abbia influenzato profondamente il tessuto gastronomico statunitense e non solo, rimane ancora una forte distanza tra i due paesi sul modo di concepire la pasta: uno degli effetti che si possono percepire più chiaramente è l’enorme diffusione dei prodotti italiani precotti in scatola che hanno permesso alle casalinghe a stelle e strisce di avere un risultato sicuro (quasi sempre non invidiabile) con il minimo sforzo.

L’aneddoto dell’italiano che lancia gli spaghetti sul muro per verificarne la cottura, riportato in un ricettario americano del 1946, per quanto inverosimile, mostra una straordinaria longevità e diffusione ancora oggi. Come tutte le leggende urbane, anche questa deve contenere un fondo di verità, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che fuori dalla penisola si continui tutt’ora a ripetere questa pittoresca storiella.

Se nel nostro paese siamo abituati a mangiare la pasta al dente, non sempre è così all’estero (è notizia recente di un cuoco bolognese licenziato da un ristorante in Francia perché cuoceva gli spaghetti troppo poco: http://bit.ly/2h4HVTq) e soprattutto non è sempre stato così nemmeno in Italia.

Un’indicazione in questo senso la forniscono i ricettari storici nei rari consigli sui tempi di cottura della pasta. Escludendo gli esempi più antichi – come il celebre Maestro Martino che nel Libro de arte coquinaria composto a metà del Quattrocento consiglia di cuocere un’ora i vermicelli e due i maccaroni siciliani – ancora tra il XIX e il XX secolo, si nota che i tempi di cottura erano esageratamente lunghi per i parametri odierni e si sono andati tendenzialmente accorciando, rimanendo comunque su standard molto lontani da quelli attuali. A titolo di esempio, elenco alcuni ricettari con i relativi tempi di cottura della pasta suggeriti dagli autori:

  • Il cuoco piemontese ridotto all’ultimo gusto, 1832: dai 15 ai 30 minuti
  • La cucina Facile, 1844: 1 ora
  • Chapusot, La cucina sana, 1846: 45 minuti
  • Almanacco dei Gastronomi, 1863: 30 minuti
  • La cuciniera universale, 1870: 30 minuti
  • Il cuciniere moderno, 1871: 45 minuti
  • Il cuoco sapiente, 1871: dai 2-3 minuti per le pastine sottili in brodo, ai 30 minuti e più per le paste asciutte
  • Leyrern, La regina delle cuoche, 1882: 15 minuti
  • La vera cucina genovese, 189?: 15-20 minuti
  • Bossi, L’imperatore dei cuochi, 1894: 15 minuti
  • M. Parmentier, Il re dei re dei cuochi, 1897: 20 minuti
  • Ferraris Tamburini, Come posso mangiare bene?, 1913: dai 20 minuti per i “maccheroni all’italiana al burro e formaggio” (che in seguito vengono risottati in brodo o acqua salata) a 1 ora per i “maccheroni al sugo”
  • L’arte di mangiare bene, 1923: dai 6 ai 12 minuti
  • Fornari, Il cuciniere militare, 1932: 18-20 minuti per la pasta di semola (con il consiglio di toglierla “piuttosto un minuto prima che dopo”), 5 minuti per i taglierini all’uovo in brodo.

Solo due ricette, a quanto mi è capitato di leggere, riportano qualche notazione circa la consistenza che dovrebbe avere la pasta a fine cottura: Chapusot nella descrizione dei “maccheroni alla piemontese” che vengono fatti lessare fino a che non siano “molli e pastosi” e nella ricetta dei “maccheroni all’italiana” di Ferraris Tamburini del 1913, in cui i maccheroni sarebbero pronti “quando si disfano facilmente sotto la pressione delle dita”.

A questi tempi di cottura bisogna sommare anche il fatto che, ancora nella prima metà del Novecento, solo le paste più pregiate erano composte unicamente di grano duro (che notoriamente conferisce maggiore tenacia alla pasta) mentre le più comuni avevano percentuali di grano tenero che, nelle versioni più economiche, poteva superare il 50 per cento, con una evidente ricaduta sulla tenuta della cottura della pasta.

A partire dal secondo dopoguerra, in Italia si è assistito a una grande rivoluzione nel mondo della gastronomia che ha profondamente influenzato anche il modo di cucinare la pasta. Sebbene sia stato mantenuto un forte radicamento con la propria tradizione secolare, è avvenuto un rapido mutamento del gusto che ha portato, tra le altre cose, a preferire la consistenza della pasta al dente rispetto a quella morbida di qualche decennio prima.

Probabilmente la leggenda degli spaghetti lanciati sul muro trova una propria spiegazione nell’abitudine degli emigrati italiani di cuocere molto la pasta, fino a farla diventare appiccicosa, come voleva la loro tradizione di inizio Novecento, se non precedente. Considerata da questo punto di vista, l’abitudine di cuocere molto (troppo) la pasta all’estero è semplicemente dovuta all’adesione a schemi gastronomici antichi (ma pur sempre italianissimi) rimasti immutati nel tempo che sono stati superati, completamente o in parte, dall’evoluzione gastronomica del nostro paese degli ultimi 60 – 70 anni.

Insomma, se dobbiamo dare la colpa a qualcuno perché all’estero scuociono gli spaghetti, beh quello è il nostro bisnonno che è emigrato in cerca di fortuna. Con ciò non voglio giustificare certe ricette che vengono spacciate come italiane, soprattutto i piatti precotti, le buste e lo scatolame, ma può essere un buon punto di partenza per valutare in modo diverso la versione della cucina italiana negli altri paesi.

Tutte le volte che ci si riferisce alla tradizione gastronomica italiana della pasta, si dovrebbe tenere conto del fatto che la cucina non è un monumento immutabile, ma un linguaggio vivo e in continua evoluzione e, in fondo, mangiare la pasta all’estero potrebbe essere l’esperienza più simile a un viaggio nel tempo della gastronomia italiana antica.