Storia della pasta al pomodoro: le fonti e i protagonisti

Questo è un approfondimento dell’articolo precedente sulla storia della pasta al pomodoro.

Giovanni Buitoni, l’imprenditore italiano che tutti conosciamo, nel 1940 ebbe un’idea visionaria e senza precedenti quando inaugurò un proprio ristorante a Times Square dove un nastro di cuoio trasportava porzioni di spaghetti al sugo direttamente al tavolo dei clienti. Pagando 25 centesimi si accedeva al ristorante attraverso un cancello girevole e si potevano mangiare spaghetti al sugo a volontà. Il nastro trasportatore e la formula “allyou can eat” applicata al cibo italiano per eccellenza a New York nel 1940 danno la misura del genio del fondatore della Buitoni Food Corporation, ma anche della diffusione della pasta al pomodoro che si era ormai affermata anche sull’altra sponda dell’Atlantico. 

Giovanni e Letizia Buitoni

Come è noto, il pomodoro è di origine americana e fu tra i primi prodotti del Nuovo Mondo a essere portato in Europa, ma non per questo la sua introduzione nella cucina fu immediata e nemmeno l’incontro con la pasta ebbe un esito scontato. Dovranno passare centinaia di anni prima che venga realizzato il connubio più famoso della gastronomia italiana. 

 

La diffidenza verso il frutto proveniente dal nuovo mondo 

La storia occidentale del pomodoro inizia con la descrizione che ne fa Bernardino de Sahagún all’interno della sua Historia universal de las cosas de Nueva España a metà del Cinquecento. Le sue osservazioni riguardano il commercio del pomodoro, le sue varietà e alcune notazioni alimentari, racchiuse in un breve capoverso. 

El que trata en tomates suele vender los que son gruesos y también los menudillos, y todos los que son de muchos y diversos géneros, según se trata en el texto, como son los tomates amarillos, colorados y los que están bien maduros. El que es mal tratante en esto vende los que están pudridos y machucados, y los que están aún azedos. Vende también los que aún no están bien maduros sino muy verdes, y cuando se comen rebuelven el estómago, ni dan sabor alguno, sino que provocan las reumas 

Trad. “chi si occupa di pomodori di solito vende quelli grossi e anche quelli più piccoli, e tutti quelli che sono di tanti e diversi tipi, secondo ciò che si tratta nel testo, come i pomodori gialli, rossi e quelli che sono ben maturi. Il cattivo venditore vende quelli che sono marci, ammaccati, e quelli che sono ancora aspri. Vende anche quelli che ancora non son ben maturi, ma verdi, e quando si mangiano rivoltano lo stomaco, né danno alcun sapore, ma provocano i reumatismi” 

Copia dell’ “Historia general”conservata alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze

Questa nota fornisce già alcune importanti informazioni, ovvero che anche nelle Americhe esisteva un commercio del pomodoro, che era considerato un alimento e ne esistevano diverse varietà e venivano vendute a diversi stadi di maturazione. Non ultima l’avvertenza sulla pericolosità di questo frutto (almeno su quello acerbo) che verrà ripresa da diversi trattatisti del Vecchio Mondo. 

Nello stesso periodo esiste anche una puntuale descrizione del pomodoro compiuta dal medico senese Pietro Andrea Mattioli che la inserisce nei suoi “Discorsi” del 1544. 

Portasene à i tempi nostri un’altra spetie in Italia le quali si chiamano pomi d’oro. Sono queste schiacciate come le mele rose, et fatte à spichi di color prima verdi, et come sono mature in alcune piante rosse come sangue, et in altre i color d’oro.  Si mangiano pur anch’esse nel medesimo modo 

Il “medesimo modo” a cui fa riferimento Mattioli è quello riservato alle melanzane, altro vegetale trattato con sospetto, ovvero “volgarmente fritte nell’olio, con sale et pepe, come i fonghi“. Non è forse un caso che entrambi gli ortaggi siano trattati all’interno del capitolo dedicato alla mandragora che, in effetti, appartiene alla famiglia delle solanacee come il pomodoro e condivide con questo la proprietà di generare frutti di colore giallo-arancione, ma è altamente tossica e nel passato gli si attribuivano poteri magici e curativi. 

Ritratto di Pietro Andrea Mattioli

Nonostante la diffidenza rispetto alla specie vegetale appena importata dal Nuovo Mondo, il Mattioli la tratta immediatamente come cibo e specifica anche quale fosse il modo, forse l’unico, in cui veniva consumata. Inoltre ne descrive precisamente anche la forma che ricorda l’attuale “pomodoro costoluto”, oggi coltivato soprattutto in Toscana. 

L’attuale pomodoro costoluto assomiglia alle prime descrizioni di pomodori provenienti dalle Americhe

Per più di un secolo la sentenza sul pomodoro non si distaccherà di molto da questi giudizi e sarà veicolata unicamente dai medici del tempo, come appare nelle “Regole della Sanita et Natura de’ Cibi di Ugo Benzo del 1620 e nel “Teatro Farmeceutico, Dogmatico, e Spagirico di Giuseppe Donzelli del 1675. Anche quest’ultimo ne riserva una descrizione all’interno al capitolo della mandragora, insieme alle inseparabili melanzane, ma aggiunge alcuni importanti particolari. 

…mi viene in memoria quella pianta, già peregrina; ma hora qui familiarissima, massimamente alli Spagnuoli, che chiamano i frutti d’essa Tomattes. Questi veramente si chiamano Pomi d’Amore, ò Pomi di Oro, & anche Pomi d’Ethiopia. Sono Spetie di Molegnane [melanzane n.d.a.]; hanno forma schiacciata come le Rose, e sono fatte à spichi; appariscono prima verdi; ma poi maturandosi in alcune piante si veggono rossi come sangue, & in altre color d’Oro; fe ne ritrovano senza spichi ritondi, come mele Appie di colore giallo; e rosso. Sono freddi poco meno della mandragora: si mangiano con Pepe, sale & oglio, cotti e crudi:  danno poco, e cattivo nutrimento. 

Innanzitutto si precisa che il pomodoro è divenuto molto famigliare, ma lo è ancora di più in Spagna, il paese che, per tradizione e posizione geografica, si trovava in prima linea nelle importazioni delle merci provenienti dal Nuovo Mondo. Donzelli descrive anche una seconda specie di pomodoro rotonda e senza spicchi che oggi è la più diffusa. Infine, sorvolando dalla notazione sul grado di frigidità del frutto (derivato dalla teoria degli umori della medicina ippocratica) ci svela che si può mangiare cotto, ma anche crudo, condito con olio, sale e pepe. 

 

I primi ricettari napoletani 

A distanza di pochi anni appare la prima significativa presenza del pomodoro in un ricettario. Si tratta della salsa di pomodoro «alla spagnola» inserita nello “Scalco alla moderna pubblicato a Napoli nel 1692 dal un marchigiano Antonio Latini, cuoco di corte del Viceré spagnolo nella capitale partenopea.   

Salsa di Pomadoro, alla Spagnuola. Piglierai una mezza dozzina di pomadore, che sieno mature; le porrai sopra le brage, a brustolare, e dopò che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il coltello, e v’aggiungerai cipolle tritate minute, a discrezione, peparolo [peperoncino n.d.a.] pure tritato minuto, serpollo [timo n.d.a.] in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accommoderai con un po’ di sale, oglio, & aceto, che sarà una salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro 

Nonostante le evidenti differenze con le ricette attuali, il Latini pone le basi per realizzare la salsa di pomodoro: dopo avere abbrustolito sulle braci i frutti, pelati e tritati insieme a cipolla, peperoncino e timo, si servono conditi con sale, olio e aceto. Una composizione magra e acida, in linea con lo stile delle salse medievali e rinascimentali. 

Ritratto di Antonio Latini

Si ripresenta il riferimento alla Spagna, paese in cui evidentemente l’uso del pomodoro a tavola è già piuttosto diffuso rispetto all’Italia, come buona parte dei prodotti americani. Non stupisce che la via di penetrazione del nuovo alimento passi proprio da Napoli che all’epoca era una fiorente città, ricca di commerci e scambi culturali, seconda città del mediterraneo per dimensioni dopo Instanbul. 

In virtù della dominazione spagnola che durava dai primi del Cinquecento, la città partenopea rappresentava una via privilegiata per il contatto tra i due paesi e quindi con le colonie d’oltreoceano, anche dal punto di vista dei costumi alimentari. L’associazione tra Napoli e il pomodoro che perdura tutt’oggi non è casuale, ma frutto di una storia plurisecolare. 

L’autore utilizza il pomodoro anche in una seconda ricetta in associazione alla carne: la “Cassuola di pomadoro” in cui descrive una sorta di stufato con piccioni, vitello, polli ripieni, rigaglie di polli e pomodori, addensato con uova e succo di limone.  

La battuta d’arresto della trattatistica culinaria italiana durata quasi un secolo a favore della fiorente cucina francese ci porta direttamente al 1773, anno di edizione de “Il cuoco galante di Vincenzo Corrado. Originario di Oria (Brindisi) si forma e svolge il proprio sevizio di cuoco a Napoli alle dipendenze del Principe di Francavilla. La sua opera, basata sulla sua esperienza maturata nei banchetti aristocratici di una Napoli in grande fermento culturale, registra molte novità che si affacciavano nel panorama culinario dell’epoca e andranno a consolidarsi nel secolo successivo. 

Ritratto di Vincenzo Corrado

Sono passati ottanta anni dalla pubblicazione della salsa spagnola del Latini e il pomodoro è ormai entrato stabilmente in tavola. Sia cotto e fatto a pezzi, sia sotto forma di sugo o culì (francesismo per salsa) variamente aromatizzato, accompagna diverse portate di carne e vegetali come la Testa del Vitello Lattante (Al colì di Pomidoro), le tortore (Al colì di Pomidoro) e le Zucche (Al colì di Pomidoro), mentre come sugo viene servito con il castrato. Inoltre è protagonista della Zuppa di pomodori e di varie preparazioni che lo farciscono in vari modi, dalla carne di vitello, alle uova, parmigiano, prezzemolo e spezie, dal riso, alla rognonata di vitello, dal budino ai crocchetti con la seguente golosa ricetta: 

Tritolata la Polpa dei Pomidoro, e passata con butirro condita di spezie e noce moscata, si mescola con ricotta e gialli d’uova, se ne formano Crocchetti alla lunghezza d’un mezzo dito, quali infarinati, dorati, e fritti, si servono con crostini di pane. 

Ancora nessun accostamento alla pasta: in tavola c’è il pomodoro e c’è la pasta, ma ancora non si sono incontrati, rimanendo confinati nei rispettivi settori.  

 

La diffusione della salsa di pomodoro 

Se “Il cuoco galante testimonia la ricchezza di preparazione a base di pomodoro nel napoletano, poco si conosce della sua diffusione nel resto dello stivale. Un indizio del suo uso in altri territori deriva dal “Cuoco maceratese” del 1781 di Antonio Nebbia che, tra le preparazioni riserva lo spazio a una salsa di pomodoro. Macerata non era una città particolarmente florida dal punto di vista di commerci o degli scambi culturali, ciononostante il pomodoro era già penetrato negli usi culinari anche di questo territorio. La ricetta è semplice, quanto significativa.  

Il pomo d’oro è un frutto assai vantaggioso per la cucina, e di buon gusto, o sia per la salsa, o per minestre, come in addietro vi dimostrai nella zuppa di riso, e per la salsa di lesso di pesce: dunque prendete il pomo, fatelo cuocere in una cazzarola a fuoco lento, solo che lo spacchiate in mezzo, e lasciatelo andar così cuocendo per sino che divenga tutto disfatto; dopo passatelo nello staccio con una cucchiaia di legno: passato che sia bene, tornate a farlo bollire a fuoco lento, e fatelo stringere assai; questa conserva mettetela in una vaso di terra ben vetrato, e freddato che sarà, copritelo con una carta ben chiuso con spago, mettetelo in un luogo asciutto, e l’estate in un luogo fresco, che sia asciutto. Di questa conserva vi potete servire per zuppe, e salse, quando non si trovano più fresche a suo tempo. 

La presenza del sugo nella zuppa di riso descritta da Nebbia è un’anticipazione all’incontro con la pasta di pochi anni dopo, con il quale era spesso accomunata per il modo di utilizzo. 

È però nella monumentale opera di Francesco Leonardi, l’”Apicio moderno, dato alle stampe nel 1790 che si trova la più grande quantità di ricette con il pomodoro, tra le altre con accostamenti decisamente inusuali, come con le tartarughe di terra, oppure in una zuppa (salata) di pere. Formatosi a Parigi alla metà del Settecento presso il Maresciallo di Richelieu, tornò in Italia, a Napoli, alle dipendenze di Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese d’Oria. A partire dagli anni ’70 presta servizio nelle cucine di tutta Europa, fino a raggiungere la posizione di cuoco particolare e scalco dell’imperatrice Caterina di Russia in una San Pietroburgo in pieno fermento culturale che attirava artisti, architetti, nonché cuochi, provenienti dall’Italia. Lasciata la Russia a causa del clima troppo rigido, nel 1781 si trasferisce a Roma, nelle cucine del cardinale De Bernis, plenipotenziario di Luigi XV presso la Santa Sede, dove comincia la stesura della propria opera. 

Il binomio con la pasta non compare ancora nella prima edizione di questo ricettario, ma non si sarebbe dovuto attendere ancora molto. 

Frontespizio della prima edizione dell’Apicio Moderno

La prima pasta al pomodoro 

Sembra che sia la Cucina Economica di Vincenzo Agnoletti del 1803 a riportare la prima combinazione in assoluto tra il pomodoro e la pasta. L’autore romano svolge l’apprendistato accanto al padre, credenziere della famiglia Doria Pamphili a Roma. La sua formazione spazia tra la cucina italiana e francese e lo porterà a ricoprire il ruolo di credenziere e liquorista alla corte parmense di Maria Luigia d’Asburgo-Lorena, già moglie di Napoleone. La sua opera in quattro tomi ha la struttura di un dizionario enciclopedico della cucina in cui il ventisettenne autore racchiude tutte le proprie conoscenze dell’arte gastronomica. 

All’interno del ricettario lo spazio riservato alla pasta è piuttosto scarso, ma prende in considerazione diverse preparazioni, dalla pasta ripiena (come gli agnelotti alla piemontese e i tortellini alla bolognese) agli gnocchi, dalle lasagne ai maccheroni (sia come pastasciutta che in pasticcio). L’associazione con il pomodoro appare all’interno della preparazione della pasta “in zuppa”, ovvero in brodo. La pasta, di piccolo formato, viene prima “imbianchita”, ovvero sbollentata in acqua, poi la cottura viene terminata in brodo, che può essere insaporito con poco sugo di carne (come suggerito anche da altre ricette) o ancora con sugo di pomodoro. 

Zuppa di qualunque sorte di paste fine in tutti i modi. Le paste fine di qualunque sorte, dopo averle imbianchirete nell’acqua bollente, le potrete far cuocere con brodo solo, o con brodo, e sugo, o con sugo di pomidoro; oppure, allorchè saranno cotte con brodo, potrete aggiungervi un poco di qualunque culì, o di qualunque purè, e servirle con un tondino di parmegiano grattato a parte. Potrete ancora dopo imbianchite, come sopra; farle cuocere con latte di Vacca, o con latte di mandole, ed ancora, potrete apprestarli alla liason, che per tutte queste maniere, potrete regolarvi dalle diverse zuppe di riso, potendo apprestare quelle di paste fine nell’istessi modi. 

Il pomodoro in questo caso è in forma di potage piuttosto liquido e la pasta, precedentemente sbollentata e servita in questa zuppa è piuttosto lontana dai canoni odierni della cucina italiana.

La prima pasta al pomodoro della storia poteva avere un aspetto simile a questo

L’uso del pomodoro nella zuppa di riso è confermato anche dalla ricetta riportata nel 1807 all’interno del quinto volume dell’Almanach des gourmands di Grimod de La Reynière. Questa pubblicazione periodica francese è considerata la capostipite delle guide gastronomiche e non fornisce ricette, ma cita le specialità culinarie e consiglia dove acquistarle o gustarle. Le descrizioni dell’almanacco confermano un uso del pomodoro in piena espansione anche oltralpe nelle preparazioni più varie, dalla confettura alla omelette aux tomates ma anche in associazione con la pasta con un metodo di preparazione che ricalca in pieno quello descritto qualche anno prima dall’Agnoletti.  

La pasta italiana viene citata all’interno di un discorso sui “potages farineux”, a cui l’autore si riferisce genericamente come “vermicelli”, che può essere servita sotto forma di zuppa. 

Aux purées au fromagequ’on peut mêler avec le vermicelli, on substitute quelquefois, pendant l’automneavec succèsles tomates. Le jus de ce fruit ou legume (comme on voudra l’applelercommunique aux Potage dans lesquels on le fait entrer, une acidité très agéable, et qui plait Presque généralment à ceux qui s’y sont habituésAu reste il s’allie encore mieux avec le riz qu’avec le pâtesRien n’est plus délicieuxselon nous, dans le mois s’aoûtm de setembre et d’octobrequ’un Potage au riz au gras, bien fait, et dans lequel on a fait entrer le jus des tomates. Aux reste, on peut le servire à part comme le fromage, pour ménafer le gout de ceux auxquels cet assaisonnement ne convient pas. 

Trad. “Alle puree e al formaggio che si possono mescolare ai vermicelli, si sostituiscono ogni tanto in autunno, felicemente, i pomodori. Il succo di questa frutta o verdura (come la si vorrà chiamare) comunica al Potage in cui la si aggiunge, un’acidità molto gradevole, e che piace praticamente a tutti quelli che ci si sono abituati.  

Per tutti gli altri, si abbina ancora meglio al riso piuttosto che alla pasta. Non c’è niente di più delizioso nel mese di agosto, settembre e ottobre, di un Potage di riso di grasso, ben fatto, e in cui è stato aggiunto il succo di pomodoro. Del resto, può essere servito a parte come il formaggio, per soddisfare il gusto di coloro a cui questo accompagnamento non si addice 

Il sugo di pomodoro viene quindi aggiunto al potage (quindi una zuppa piuttosto liquida) per conferire gusto e acidità al piatto. La pasta rappresenta la componente farinacea della zuppa che può essere brillantemente sostituita anche dal riso.  

 

maccaroni alla napolitana 

A mutare il paradigma è invece la seconda edizione del già citato Apicio moderno di Francesco Leonardi, pubblicato nella seconda edizione del 1807-08 che contiene un’importante novità: per la prima volta la ricetta dei Maccaroni alla Napolitana riporta la variante dell’inserimento del sugo di pomodoro all’interno della preparazione. Sono passati diciotto anni dalla prima edizione e l’autore aggiorna la ricetta nel seguente modo: 

Maccaroni alla Napolitana. Terrina = Fate cuocere dei maccaroni con acqua e sale, allorchè saranno cotti tre quarti scolateli, e conditeli nella Terrina con parmigiano grattato, pepe schiacciato, e Sugo di vitella, o di manzo, ovvero un buon brodo di stufato, o garofanato fatto con sugo di pomidoro, e passato per il passabrodo. Alcuni per farli migliori aggiungono del butirro fresco nel Sugo, o Culì, ma la vera maniera è come sopra la cenere calda, o alla bocca del forno acciò i maccaroni prendano sapore, e serviteli che siano alquanto sugosi. [sottolineatura mia] 

L’arricchimento dell’intingolo con il pomodoro avrà un grande successo e, nel giro di qualche decennio, diverrà la norma per la realizzazione di quello che oggi è il ragù alla napoletana. Ma la ricetta, apparentemente più semplice e banale degli spaghetti al sugo sarà registrata solo trenta anni più tardi ancora per merito di un altro autore napoletano, confermando la secolare tradizione di apripista nei confronti di questo ortaggio. 

 

Gli Spaghetti al pomodoro 

Ippolito Cavalcanti è un notabile napoletano, nonché duca di Buonvicino, che nel 1837 pubblica la “Cucina teorica-pratica un ricettario molto particolare in cui una parte, intitolata “Cucina Casarinola all’uso nuosto napolitanodedicata alle ricette popolari, è scritta interamente in dialetto napoletano. Questa sembra essere la prima pubblicazione degli spaghetti al pomodoro come pastasciutta “all’italiana”. 

Vermicielli co le pommadore. Quann’è lo tiempo, pigliarraje tre rotola de pommadore, le farraje cocere, e le passaraje; po piglia no terzo de nzogna, o doje mesurelle d’uoglio, lo faraje zoffriere co na capo d’aglio, e lo miette dint’a chella sauza. Doppo scauda doje rotola di vermicielli, e vierdi vierdi li levarraje, e nce li buote pe dinto: falle chini di pepe, miettence lo sale, e poi vide che magne. 

Trad. “Spaghetti al pomodoro: quando è la stagione, prenderai 2,7 chili di pomodori, li farai cuocere e li passarai; poi prenderai 1 etto di strutto, oppure 2 decilitri di olio, lo farai soffriggere con una testa d’aglio e lo metterai dentro alla salsa. Lessa 1,8 chili di spaghetti, scolali quando sono al dente e buttali nella salsa; riempili di pepe, aggiungi il sale e vedrai cosa mangi. 

Confrontando questa versione con quella descritta solo trenta anni prima dall’Agnoletti o dal de La Reynière, salta immediatamente all’occhio la modernità di questa preparazione che anticipa il piatto nazionale che tutti conosciamo. La semplicità della passata di pomodoro, a cui non vengono aggiunti brodi, sughi di carne o altri insaporitori all’infuori di olio (o strutto), aglio e pepe, è pienamente moderna. 

Tra i pochi indizi dell’antichità della ricetta si ritrova nella scelta tra strutto e olio, un’ambivalenza frutto della divisione tra i periodi “di grasso, quando era consentito l’uso della carne e dei grassi animali e “di magro” come il venerdì, durante la quaresima, la vigilia di Natale e altre ricorrenze religiose. Altra notazione che oggi appare naturale è il consiglio di scolare gli spaghetti al dente, descritti dall’autore come “verdi” ovvero acerbi, a differenza di ciò che avveniva in molte parti d’Italia in cui la pasta era ancora sottoposta a lunghe cotture. 

Frontespizio della “Cucina teorica-pratica”

Più della separazione temporale dei trenta anni che dividono le ricette precedenti e questa, conta quella geografica in un’Italia divisa sia politicamente che gastronomicamente. È a Napoli che si sviluppa una cultura del pomodoro, ma soprattutto della pastasciutta come piatto con una propria piena autonomia e dignità. La “rivoluzione napoletana” della prima metà dell’Ottocento svincola la preparazione del sugo dalla cottura di un pezzo di carne da cui si traeva l’intingolo per condirla (e che veniva consumato come secondo piatto, come nella tradizione del ragù) e, nel contempo, la fa uscire dalla monotonia del condimento a base di solo formaggio che ne aveva segnato l’esistenza fin dal Medioevo. 

L’idea di preparare un sugo da dedicare unicamente alla pasta apre a un’infinità di soluzioni, limitate solo dalla fantasia e dagli ingredienti a disposizione. Una vera e propria rivoluzione copernicana che, unita alla disponibilità sempre maggiore di pasta prodotta industrialmente di buona qualità e prezzo contenuto, sarà l’inizio per la colonizzazione gastronomica dell’intero paese. 

Gli spaghetti prodotti dai grandi pastifici che adottavano moderne tecniche di lavorazione saranno seguiti nel giro di qualche decennio dagli stabilimenti di produzione di pomodoro in scatola. Mentre nel meridione la salsa è confezionata soprattutto in casa con un rito seguito da molte famiglie durante la fine dell’estate, il pomodoro in scatola è essenziale per la diffusione della cultura della pasta al pomodoro all’estero.   

 

Il pomodoro tutto l’anno 

Una delle prime interessanti osservazioni sulla conservazione del pomodoro viene da “Il Cuciniere Italiano Moderno del 1844 che, dopo avere dato la ricetta per la salsa di pomodoro, consiglia di conservarla tramite il “processo Appert”. Nicolas Appert fu l’inventore della conservazione ermetica dei cibi all’interno di contenitori di vetro sigillati e fatti bollire fino alla sterilizzazione. Questo procedimento, datato 1810, precedette di mezzo secolo gli studi di Pasteur sulla uccisione dei batteri tramite il calore e contribuì alla conservazione degli alimenti. Il primo a beneficiarne fu Napoleone Bonaparte che riuscì a rifornire le proprie truppe con i nuovi cibi conservati, garantendo migliori condizioni di trasporto e stoccaggio durante le campagne militari in Europa. 

In Italia Francesco Cirio intuì ben presto le potenzialità di tale metodo e iniziò ad adottare il processo di conservazione su larga scala fondando la Cirio a Torino nel 1856 applicando l’appertizzazione ai piselli per esportarli in tutto il mondo. In seguito all’unità d’Italia, Cirio aprì alcuni stabilimenti nel Mezzogiorno, tra cui quello di Napoli, recuperando anche vaste aree agricole per la coltivazione del pomodoro da lavorare e inscatolare.  

Francesco Cirio

Contemporaneamente nei territori della provincia di Parma le coltivazioni di granturco e frumento cominciarono ad essere alternate biennalmente a quelle del pomodoro. Anche in questo caso si adottarono i metodi di conservazione del prodotto finito, orientandosi soprattutto sul concentrato di pomodoro che veniva essiccato e formato in “pani”. 

La maggior parte del pomodoro lavorato industrialmente veniva esportato all’estero, mentre in Italia si era diffusa la lavorazione casalinga, un rito compiuto direttamente dalle massaie che in molti casi si perpetua ancora oggi. 

Tra i riferimenti letterari più celebri si può citare Giovanni Verga che ne I Malavoglia (1881) accenna alle mansioni di Donna Rosolina che aveva “la conserva dei pomidoro da fare, che lei ci aveva un segreto tutto suo per avere la conserva dei pomidoro fresca tutto l’inverno”.  

Ormai la diffusione del pomodoro era capillare e l’accostamento con la pasta stava diventando un simbolo, se non nazionale, quantomeno del meridione italiano. Alla fine dell’Ottocento i vicoli di Napoli erano invasi da banchi che vendevano cibo già pronto da consumare per strada (i precursori dello street food odierno) e tra trippai e venditori di polpo, spiccavano i maccheronai. Così li descrive Matilde Serao nel suo “Il ventre di Napoli” del 1884 

Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. […] Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l’oste, perché vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio e un po’ più di maccheroni- 

Mangiatori di maccheroni nelle vie di Napoli

 

Gli spaghetti al pomodoro sbarcano nel Nuovo Mondo 

Alla fine dell’Ottocento il pomodoro sulla pasta era ormai ampiamente diffuso come testimonia anche Pellegrino Artusi nel 1891 nel celebre “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. I suoi spaghetti alla rustica vengono conditi con un sugo profumato da un battuto di aglio, prezzemolo e basilico, il tutto sormontato da una manciata di parmigiano grattugiato. 

Nello stesso modo vengono servite addirittura le “Tagliatelle all’uso di Romagna”, cibo quotidiano che l’Artusi conosceva bene, per il quale oggi ci aspetteremmo un intingolo più ricco e opulento, come la regione da cui prende il nome, ma in realtà l’epopea dei ragù con al carne tritata, come il celebre “ragù alla bolognese” era appena agli inizi e comincerà ad avere una certa fama solo negli anni a cavallo della Grande Guerra.  

Da Napoli in cui erano nati, gli spaghetti al pomodoro divennero una vera e propria moda gastronomica, forse la più estesa fino a quel momento che coinvolse l’intera penisola, travalicandone anche i confini, per giungere all’altro capo dell’atlantico, su quelle coste da cui erano partiti i primi esemplari di pomodori quattro secoli prima.

Pubblicità del pomodoro Cirio per il mercato statunitense